Scene Massimo Troncanetti, Costumi Elena Bianchini,
Foto Neri Oddo – Assistente alla Regia Jonathan Freschi
Impianto e Regia Emanuele Gamba
Da venerdì 15 a domenica 17 marzo all'OFF/OFF Theatre si parla d'Amore con Truman Capote - Questa cosa chiamata Amore, spettacolo tratto da e dedicato a Capote, scritto da Massimo Sgorbani e interpretato da Gianluca Ferrato con la regia di Emanuele Gamba, presentato da Florian Metateatro in collaborazione con il Teatro Nazionale della Toscana.
Un omaggio ad uno dei più grandi scrittori americani del '900, autore di grandi classici della letteratura come Colazione da Tiffany o A Sangue Freddo, pietre miliari su cui sono poi stati scritti interi romanzi, opere teatrali, film e serie TV, realizzato con le scene di Massimo Troncanetti, i costumi di Elena Bianchini e l'aiuto alla regia di Jonathan Freschi.
"Tutta la letteratura è pettegolezzo". Così Truman Capote liquidava con una delle sue abituali provocazioni anti-letterarie qualsiasi visione sacrale dell'arte e dell'artista. 'Pettegolezzo' inteso come svelamento di ciò che non si sa, indagine sui lati oscuri dell'America, in modo leggero e profondo, snob e vivace come un vodka martini. È il Capote più irriverente, infatti, quello che emerge dal testo, in cui Massimo Sgorbani disegna per Gianluca Ferrato, diretto da Emanuele Gamba, un dandy, un esibizionista, un personaggio pubblico prima ancora che un grande scrittore: l'anticonformista per eccellenza, che può permettersi di parlare con la stessa dissacrante arguzia di Hollywood e della società letteraria newyorkese, di Jackie Kennedy e Marilyn Monroe, di Hemingway e Tennessee Williams, senza mai risparmiare se stesso, i suoi vizi, le sue manie, i suoi successi e fallimenti.
Il suo stile, decadente, ironico e iconoclasta, ha segnato la letteratura degli Stati Uniti. Truman, geniale scrittore, giornalista e drammaturgo, è stato, dopo Hemingway, forse il più grande esempio di autore divenuto protagonista e vittima, dello star system a stelle e strisce. Un predestinato alla scrittura. Inizia a scrivere a otto anni, a diciassette le prime pubblicazioni, a diciannove vince il primo O. Henry Award della sua vita. Il suo stile è già formato, come ammetterà lui stesso negli ultimi anni della sua vita; cambia l'oggetto dei suoi racconti, la materia tra le mani, ma il suo stile è quasi identico a quello della sua giovinezza e si basa tantissimo sul suono e sul ritmo delle parole.
Dopo un'infanzia difficile e con l'aggravante, per l'America dell'epoca, dell'omosessualità, Capote, sotto i lustrini di feste e copertine di riviste, ha saputo raccontare tanto la frizzante società newyorkese quanto il cuore più nero del suo Paese.
Il tutto con una lingua costruita alla perfezione, vero elemento distintivo della sua produzione, tanto quanto i temi di cui si è occupato nei suoi libri, da Colazione da Tiffany a Marlon Brando.
Partito dai bassifondi, lavorando come fattorino, Capote ha conosciuto il successo con i racconti, per poi imporsi definitivamente con il romanzo-verità A sangue freddo di cinquanta anni fa (1966), storia del massacro di una famiglia e capostipite di un nuovo tipo di giornalismo letterario. Poi alcol e droga hanno infiacchito il suo talento, a lungo cristallino e unico. Ma trent'anni dopo la sua morte, per cirrosi epatica nell'agosto del 1984, a neppure 60 anni di età, non possiamo che rimpiangere il suo genio e anche la sua candida e disperata voglia di stupire e, probabilmente, di essere apprezzato e amato."Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l'autoflagellazione". Se per Capote il suo talento è stato una frusta, per tutti noi è stato solo piacere puro.
VODKA MARTINI PER TUTTI!
Note di Massimo Sgorbani:
Non ho preteso di scrivere una biografia teatrale di Truman Capote, nè un’ambiziosa ‘interpretazione’ della sua figura letteraria. Tanto meno di portare sulla scena quel che lui ha già detto meglio di chiunque altro. Solo di render conto di quel che ogni grande scrittore continua a dire anche a chi lo legge a distanza di anni. Non mi è stato difficile evitare di ‘specchiarmi’ in un personaggio per tanti aspetti così lontano da me. Pur assumendomi la responsabilità della mia anacronia, ho solo cercato di raccogliere quel che Truman Capote ha seminato. Questo è quel che mi ‘ha raccontato’, con la straordinaria leggerezza di chi chiacchiera sorseggiando un Vodka Martini. Il lato oscuro di un’America che altri – prima, insieme e dopo di lui – hanno esplorato. La paura dello sconosciuto che minaccia la tua famiglia e la tua proprietà. La paura (e insieme l’attrazione) che suscita il ‘diverso’, ma anche la paura che lo stesso diverso prova sentendosi tale e tentando di essere accettato, salvo scoprirsi in extremis ‘tollerato’ (come diceva Pasolini) solo ipocritamente, e riappropriandosi dell’unica identità che, a ben vedere, gli è stata realmente concessa: quella di intruso, di presenza minacciosa. Tante armi da fuoco: Colt, Winchester, bazooka, bombe, napalm, ‘pistole fumanti’ o pistole letterarie come quelle dichiarate dallo stesso Capote a proposito del suo Preghiere esaudite («Il libro è diviso in quattro parti e, in effetti, ha proprio la struttura di una pistola. C’è l’impugnatura, il grilletto, la canna e, alla fine, il proiettile»). Colonizzazioni impossibili, integrazioni fasulle, ribellioni coltivate inconsapevolmente nel salotto di casa. Il mito dell’ascesa sociale, dell’integrazione, di un diritto alla felicità iscritto nella Costituzione (al pari del diritto alla difesa personale) e che suona quasi come un imperativo se non, in modo sinistro, come un ordine militare. Il mito della libertà, il fatto che vederla o pensarla sempre minacciata garantisca, se non il suo effettivo esercizio e godimento, almeno la sua continua salvaguardia e riconquista. Un’America bisognosa degli Hickock e Smith che ti entrano in casa nel cuore della notte, quasi che non ti aspettassi altro, in fondo. Un’America sempre sveglia e vigile nel suo letto, come il vecchio de Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe. Dio benedica quell’America e danni i suoi cantori. Dei dannati come Truman Capote (e di quelli a seguire) ho tentato di parlare. Lo ringrazio per la sua sagace ubriachezza.
OFF/OFF THEATRE
Via Giulia 19 – 20 – 21, Roma / DIREZIONE ARTISTICA SILVANO SPADA
Costo Biglietti: Intero 25€; Ridotto Over65 18€; Ridotto Under35 15€; Gruppi 10€ – info@altacademy,it
Dal Martedì Venerdì h.21,00 - Sabato h.18,00 – Domenica h.17,00
Info e Prenotazioni: +39 06.89239515 - offofftheatre.biglietteria@gmail.com
SITO: http://off-offtheatre.com/ - FB: https://www.facebook.com/OffOffTheatreRoma/ - IG: https://www.instagram.com/offofftheatre/?hl=it
Da venerdì 15 a domenica 17 marzo all'OFF/OFF Theatre si parla d'Amore con Truman Capote - Questa cosa chiamata Amore, spettacolo tratto da e dedicato a Capote, scritto da Massimo Sgorbani e interpretato da Gianluca Ferrato con la regia di Emanuele Gamba, presentato da Florian Metateatro in collaborazione con il Teatro Nazionale della Toscana.
Un omaggio ad uno dei più grandi scrittori americani del '900, autore di grandi classici della letteratura come Colazione da Tiffany o A Sangue Freddo, pietre miliari su cui sono poi stati scritti interi romanzi, opere teatrali, film e serie TV, realizzato con le scene di Massimo Troncanetti, i costumi di Elena Bianchini e l'aiuto alla regia di Jonathan Freschi.
"Tutta la letteratura è pettegolezzo". Così Truman Capote liquidava con una delle sue abituali provocazioni anti-letterarie qualsiasi visione sacrale dell'arte e dell'artista. 'Pettegolezzo' inteso come svelamento di ciò che non si sa, indagine sui lati oscuri dell'America, in modo leggero e profondo, snob e vivace come un vodka martini. È il Capote più irriverente, infatti, quello che emerge dal testo, in cui Massimo Sgorbani disegna per Gianluca Ferrato, diretto da Emanuele Gamba, un dandy, un esibizionista, un personaggio pubblico prima ancora che un grande scrittore: l'anticonformista per eccellenza, che può permettersi di parlare con la stessa dissacrante arguzia di Hollywood e della società letteraria newyorkese, di Jackie Kennedy e Marilyn Monroe, di Hemingway e Tennessee Williams, senza mai risparmiare se stesso, i suoi vizi, le sue manie, i suoi successi e fallimenti.
Il suo stile, decadente, ironico e iconoclasta, ha segnato la letteratura degli Stati Uniti. Truman, geniale scrittore, giornalista e drammaturgo, è stato, dopo Hemingway, forse il più grande esempio di autore divenuto protagonista e vittima, dello star system a stelle e strisce. Un predestinato alla scrittura. Inizia a scrivere a otto anni, a diciassette le prime pubblicazioni, a diciannove vince il primo O. Henry Award della sua vita. Il suo stile è già formato, come ammetterà lui stesso negli ultimi anni della sua vita; cambia l'oggetto dei suoi racconti, la materia tra le mani, ma il suo stile è quasi identico a quello della sua giovinezza e si basa tantissimo sul suono e sul ritmo delle parole.
Dopo un'infanzia difficile e con l'aggravante, per l'America dell'epoca, dell'omosessualità, Capote, sotto i lustrini di feste e copertine di riviste, ha saputo raccontare tanto la frizzante società newyorkese quanto il cuore più nero del suo Paese.
Il tutto con una lingua costruita alla perfezione, vero elemento distintivo della sua produzione, tanto quanto i temi di cui si è occupato nei suoi libri, da Colazione da Tiffany a Marlon Brando.
Partito dai bassifondi, lavorando come fattorino, Capote ha conosciuto il successo con i racconti, per poi imporsi definitivamente con il romanzo-verità A sangue freddo di cinquanta anni fa (1966), storia del massacro di una famiglia e capostipite di un nuovo tipo di giornalismo letterario. Poi alcol e droga hanno infiacchito il suo talento, a lungo cristallino e unico. Ma trent'anni dopo la sua morte, per cirrosi epatica nell'agosto del 1984, a neppure 60 anni di età, non possiamo che rimpiangere il suo genio e anche la sua candida e disperata voglia di stupire e, probabilmente, di essere apprezzato e amato."Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l'autoflagellazione". Se per Capote il suo talento è stato una frusta, per tutti noi è stato solo piacere puro.
VODKA MARTINI PER TUTTI!
Note di Massimo Sgorbani:
Non ho preteso di scrivere una biografia teatrale di Truman Capote, nè un’ambiziosa ‘interpretazione’ della sua figura letteraria. Tanto meno di portare sulla scena quel che lui ha già detto meglio di chiunque altro. Solo di render conto di quel che ogni grande scrittore continua a dire anche a chi lo legge a distanza di anni. Non mi è stato difficile evitare di ‘specchiarmi’ in un personaggio per tanti aspetti così lontano da me. Pur assumendomi la responsabilità della mia anacronia, ho solo cercato di raccogliere quel che Truman Capote ha seminato. Questo è quel che mi ‘ha raccontato’, con la straordinaria leggerezza di chi chiacchiera sorseggiando un Vodka Martini. Il lato oscuro di un’America che altri – prima, insieme e dopo di lui – hanno esplorato. La paura dello sconosciuto che minaccia la tua famiglia e la tua proprietà. La paura (e insieme l’attrazione) che suscita il ‘diverso’, ma anche la paura che lo stesso diverso prova sentendosi tale e tentando di essere accettato, salvo scoprirsi in extremis ‘tollerato’ (come diceva Pasolini) solo ipocritamente, e riappropriandosi dell’unica identità che, a ben vedere, gli è stata realmente concessa: quella di intruso, di presenza minacciosa. Tante armi da fuoco: Colt, Winchester, bazooka, bombe, napalm, ‘pistole fumanti’ o pistole letterarie come quelle dichiarate dallo stesso Capote a proposito del suo Preghiere esaudite («Il libro è diviso in quattro parti e, in effetti, ha proprio la struttura di una pistola. C’è l’impugnatura, il grilletto, la canna e, alla fine, il proiettile»). Colonizzazioni impossibili, integrazioni fasulle, ribellioni coltivate inconsapevolmente nel salotto di casa. Il mito dell’ascesa sociale, dell’integrazione, di un diritto alla felicità iscritto nella Costituzione (al pari del diritto alla difesa personale) e che suona quasi come un imperativo se non, in modo sinistro, come un ordine militare. Il mito della libertà, il fatto che vederla o pensarla sempre minacciata garantisca, se non il suo effettivo esercizio e godimento, almeno la sua continua salvaguardia e riconquista. Un’America bisognosa degli Hickock e Smith che ti entrano in casa nel cuore della notte, quasi che non ti aspettassi altro, in fondo. Un’America sempre sveglia e vigile nel suo letto, come il vecchio de Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe. Dio benedica quell’America e danni i suoi cantori. Dei dannati come Truman Capote (e di quelli a seguire) ho tentato di parlare. Lo ringrazio per la sua sagace ubriachezza.