PRESENZE INVISIBILI A QUIXADÁ di Adriana Soares THRILLER PSICOLOGICO UN PO’ PSICOTICO – AoB Magazine



Enzo Cirillo – AoB Magazine
Presenze invisibili a Quixadá è il primo romanzo dell’autrice Adriana Soares, artista eclettica, che nulla ha da invidiare alle figure degli artisti rinascimentali: fotografa, pittrice, poeta, scrittrice e prima o poi mostrerà al mondo le sue sculture. Giunta alla nona fatica letteraria, si può dire che sia pronta a varcare la soglia della casa dei pochi veri artisti. Come le ricorda il grande fotografo, maestro e poeta della fotografia paesaggistica, Franco Fontana…

Presenze invisibili a Quixadá è il primo romanzo dell’autrice Adriana Soares, artista eclettica, che nulla ha da invidiare alle figure degli artisti rinascimentali: fotografa, pittrice, poeta, scrittrice e prima o poi mostrerà al mondo le sue sculture. Giunta alla nona fatica letteraria, si può dire che sia pronta a varcare la soglia della casa dei pochi veri artisti. Come le ricorda il grande fotografo, maestro e poeta della fotografia paesaggistica, Franco Fontana: “Cara Adry mia, ricordati che siamo immortali.” Ma la Soares sorride intimidita, consapevole che qualche corda riesce a toccare nell’animo di chi si trova a leggere le sue parole a volte crude e dirette o a tuffarsi dentro ai suoi dipinti profondi ed inquieti.

Adriana Soares è sola, sola come alcuni scrittori, unica nel suo genere. Fin da giovane era vista solo come una bella ragazza, una modella giramondo e amata dai grandi stilisti: elegante e sensibile, la Soares appare prigioniera di un’intensità sovrumana, assorta sul bordo di un abisso interiore, di un fuoco centrale che è anche un nulla, una mancanza, l’ombra di un perpetuo fallimento, come lei stessa afferma che ogni storia di una persona è la storia del suo fallimento e del suo superamento. Ma il fibrillante, imprevedibile modernismo dell'autrice rifugge da un impiego sistematico del flusso di coscienza e di quella ricerca costante della nostalgia, proustiana per natura, non per scelta. Se ogni tecnica è una specie di specchio nel mondo, qui la superficie riflettente appare deliberatamente infranta in minuscoli pezzi. Creare e raccontare sono i contenuti supremi della sua vita, perché vivere è scrivere e dipingere, scrivere e dipingere sono il suo vivere. In entrambi i casi, accedere alla visione significa accedere alla verità. Ma non sarebbe esatto dire che questa verità comporti una liberazione dalle apparenze. Nella luce della visione, l'apparenza e la verità producono una specie di corto circuito, collassano l'una nell'altra. Intesa come attività suprema della mente, e criterio unico e privilegiato di conoscenza, la scrittura tocca il suo limite quando le è dato «cogliere il simbolo ed il senso delle cose nelle cose stesse».

Nella Presenze invisibili a Quixadá, si tratta di compiere una scelta: permanere nei pressi della «zona sacra intatta» delle cose, e riuscire a viverle; oppure accontentarsi di ciò che è «raggiungibile». La differenza è quella che passa tra il fiume e l'acqua raccolta nella concavità delle mani per dissetarsi. Lì, fra le mani, non c'è più nulla del «gelido movimento» del fiume, nulla della «delicata avidità con cui l'acqua tortura le pietre». E quello che si beve, alla fine, è sempre «poco», mentre di «ciò a cui si rinuncia» si vive davvero. Si potrebbe dunque affermare che, nella prosa di Adriana Soares, il massimo della visionarietà coincide con il massimo del realismo. Ci sono vite che scorrono certamente, come tutte le altre, dalla nascita alla morte attraverso innumerevoli accidenti di varia importanza – ma con una fondamentale, e sconcertante differenza: i rapporti di causa ed effetto diventano poco chiari, sempre più imperscrutabili via via che il tempo passa. Anche agli occhi di chi le è più vicino, Adriana ha sempre incarnato un enigma, una specie di sfinge e come tale resterà sola ad attendere chissà quale futuro. Noi non possiamo accontentarci di esistere, come sanno fare una mosca o una farfalla. Per noi, esistere significa continuamente inventare la nostra esistenza. A causa di un delitto destinato a rimanere sullo sfondo del racconto, Bernardo José, il protagonista del suo romanzo, è un fuggitivo, un individuo che si è lasciato alle spalle il suo mondo, i suoi averi, e soprattutto le sue abitudini di pensiero e di linguaggio. Quella della fuga è l'efficace allegoria di una specie di auto-genesi, di rifondazione dell'individualità a partire da un grado zero assoluto, una forma produttiva di «stupidità» che libera la mente da ogni sapere ereditato. Le ambizioni di Bernardo José sono messe a dura prova dallo scorrere del tempo, che gli impone di portare a termine il compito che si è assegnato prima che la polizia, messa sulle sue tracce, arrivi a catturarlo nella sperduta fazenda dove lavora come bracciante. Non meno ambizioso di quello del suo personaggio è il proposito di Adriana Soares di dare forma a una specie di storia della coscienza umana, riflessa nella vicenda del suo eroe e delle due strane donne (la proprietaria della tenuta e una sua giovane parente capace di vedere i morti) che sono come l'apice di questa minuziosa presa di possesso della realtà. Il tutto immerso nel realismo magico, tipico latino americano.

Nella prima parte del romanzo si cerca di completare l'itinerario dell'individuo aggiungendo al puro fatto biologico di essere venuto al mondo (sufficiente per tutti gli altri animali) una seconda nascita, quella che Mircea Eliade definisce nascita mistica. Ovviamente, di questa suprema esperienza religiosa Adriana Soares può considerare solo la dinamica fondamentale, che è quella di un accesso traumatico alla verità, successivo a una morte simbolica, insomma alla cancellazione violenta e definitiva della vecchia identità "naturale". Adriana condivide con gli spiriti più intensi e visionari del suo tempo un processo fondamentale di riduzione dei vecchi contenuti religiosi a contenuti puramente psicologici. Ma se ogni terra è «terra altrui», dove sono sempre gli altri a vivere felici, allora toccherà all'individuo inventare il proprio radicamento, arginando in qualche modo le conseguenze catastrofiche di quella consapevolezza. Da qualunque parte si osservi quel minerale opaco (o meglio: splendente e opaco nello stesso tempo) che è il carattere di Adriana, sempre ci troviamo di fronte alla stessa legge: non si può accettare nulla che provenga in modo naturale dal passato, dal sangue, da quella parte del nostro destino che ci è consegnato, al momento di nascere, dai nostri padri e dalle nostre madri. Non si può, insomma, ereditare nulla che sia realmente valido per il singolo, che faccia da bussola alla sua solitudine. Al contrario, è necessario inventare una propria religione così come è necessario inventare una patria e fare della stessa lingua madre una lingua che sia totalmente figlia – una lingua orfana e sconosciuta per certi versi. «Io sono più forte di me», afferma con grande convinzione la Soares con aria di sfida contro il mondo, il mondo interiore, il suo.

La sua è un’opera complessa e tratta una notevole varietà di temi: è la storia di un uomo chiamato Bernardo José, che commette un crimine e fugge dalla città in cui vive. Vagando per la campagna, trova una fazenda dove inizia a lavorare sotto la supervisione della proprietaria, una donna di nome Melinda, e di sua sorellastra, la giovane quasi vedova Elvira. La storia di Bernardo José è un’allegoria del mito della Creazione, di cui l’autrice analizza i diversi passaggi.

Eppure, proprio l’autodistruzione ne è il prerequisito.” Attraverso l’auto disfacimento, Bernardo José è in grado di guardare le cose da una diversa prospettiva, comprendendone il loro significato e cercando di descriverle attraverso il linguaggio degli uomini: ma egli non è più capace di esprimersi con questo idioma. Prima di ricordare il linguaggio, Bernardo José deve ricrearsi, rinascere, e per fare ciò deve passare attraverso molteplici e distinte fasi: deve cominciare con l’identificare se stesso con altre parti del mondo. Il personaggio comincia dunque a evolversi da una roccia a un uccellino, a una pianta, a un topo, a una mucca, a un cavallo e, infine, diventa un uomo. Ecco cosa “trovare un linguaggio” significa per Adriana Soares: “il simbolo della cosa nella cosa stessa”. Bernardo José, tornato ad essere uomo, rinato, deve riscoprire i simboli del linguaggio, in modo tale da raggiungere la vera essenza delle cose. Il protagonista riesce a creare Dio attraverso il linguaggio – Dio è anche identificato con il linguaggio – e, con tale creazione, è finalmente in grado di redimersi. “Il momento in cui Bernardo José inventa Dio è il momento in cui riesce finalmente a comprendere la natura del suo crimine. Bernardo José, però, confessando il suo crimine, fallisce nel suo tentativo di divenire ciò che veramente vuole essere, rimanendo bloccato nell’essere solo un uomo, restando incompleto. Egli non è in grado di adempiere alle sue aspettative e perciò si ritira nel mondo da cui proviene: il cambiamento sussiste nel fatto che ora, nel mondo, egli è considerato un criminale che deve essere punito, pagandone il tributo alle leggi della società. Bernardo José è bloccato tra la “conversione” a un linguaggio puro e nuovo e il suo vecchio idioma, quello comune, in grado di definire le sue azioni, come il crimine.

Presenze invisibili a Quixadá è, dunque, un libro che parla del fallimento e dell’incapacità di comunicare dell’umanità. Presenze invisibili a Quixadá non è solamente un romanzo sulla ricerca di Dio: descrive ed analizza il percorso che un uomo intraprende per raggiungere la propria identità. Ma come facciamo a produrre la nostra identità, la nostra distinzione, se non attraversando ciò che noi non siamo, e cioè quindi se non ponendoci in relazione, riflettendoci con ciò che non siamo? A non è non A. Bernardo Josè cerca di identificarsi con una varietà di cose: una roccia, un uccellino, una pianta, un topo, una mucca e un cavallo. Infatti, il primo pensiero del protagonista dopo la sua rinascita è: chi sono? Ovviamente Bernardo Josè non è nato con la risposta, la deve cercare, analizzando le cose che lo circondano e comprendendo se può avere un rapporto di comparazione con loro. Ecco perché egli comincia ad ascoltare tutto ciò che lo circonda, cerca di identificarsi con ogni cosa per capire se è effettivamente come quella determinata cosa. Una volta constatata la diversità che lo distingue dai termini di paragone, Bernardo José arriva alla conclusione di non essere né una roccia, né uccellino, né una pianta, né un topo, né una mucca, né un cavallo: egli è finalmente un uomo. E si salverà?

 

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